La musica di Orfeo

Canterò, mia dolce Euridice, canterò perché niente ha più senso per me se non il canto, con cui cerco di lenire questo insopportabile tormento che è la mancanza di te, del tuo dolce riso, della luce e delle ombre che passavano nei tuoi occhi dallo sguardo innocente, delle tue danze leggiadre su letti di fiori e sulle rive dei ruscelli.

Dopo avere profondamente pianto Euridice sulla terra, Orfeo osò discendere fino allo Stige attraverso la porta di Tènaro e avanzando tra folle svolazzanti, tra i fantasmi dei defunti onorati di sepoltura, si presentò al signore dello spiacevole regno delle ombre Ade e a Persefone sua sposa. E facendo vibrare le corde della lira, così prese a dire cantando:

“O dèi del mondo che sta sottoterra, dove tutti veniamo a ricadere noi mortali creature senza distinzione, io non sono disceso qui per visitare il Tartaro buio. La ragione del mio viaggio è mia moglie, nel cui corpo una vipera calpestata ha iniettato veleno troncandone la giovane esistenza. Avrei voluto poter sopportare, e non posso dire di non aver tentato. Ma Amore ha vinto! E’ questo un dio ben noto lassù sulla terra; se lo è anche qui non so, ma spero di si; e se non è menzogna quanto si narra di un antico ratto, anche voi foste uniti da Amore”. [1]

Piangevano le anime esangui mentre egli diceva queste cose e accompagnava le parole col suono della lira. E Tantalo non cercò di afferrare l’acqua che rifluendo gli sfuggiva, e la ruota di Issione si arrestò, attonita, e gli avvoltoi smisero di beccare il fegato, e le nipoti di Belo lasciarono stare le brocche e tu, Sisifo, ti sedesti sul tuo macigno. Si narra che allora per la prima volta s’inumidirono di lacrime le guance delle Furie, commosse dal canto. E né la consorte del re, né il re stesso degli abissi ebbero cuore di opporre un rifiuto a quella preghiera; e chiamarono Euridice…

Orfeo, letteralmente Colui che è solo, è il nome del mitico poeta figlio di Apollo e della Musa Calliope, fondatore della setta Orfica, nata in Tracia nel V-IV sec. a.C.. Al centro della riflessione orfica (come in genere nei Misteri ed in particolare nei culti dedicati a Dioniso) stava l’enigma della morte e della risurrezione. L’epilogo del mito, infatti, in cui vediamo Orfeo che, pur sventrato, continua a cantare il suo amore, è un messaggio di fede nella salvezza eterna.

Forse è un po’ troppo paragonare le città d’Italia come un paesaggio surreale da “day after” in cui tutti gli Italiani sono invitati tassativamente a rimanere in casa e uscire solo per motivi indispensabili. Per quanto mi riguarda, quando esco per motivi necessari, come portare il mio cane a passeggiare o andare a fare la spesa, vedere altre persone che, come me, e a ragion veduta, rigorosamente manteniamo le distanze di sicurezza “contagio” nascosti dietro a una mascherina con le mani protette da guanti e per alcuni anche occhiali da sole per proteggere gli occhi fa un po’ impressione. Ci muoviamo tutti in un silenzio tombale e sembriamo fantasmi che si spostano silenziosamente per le strade avvolti da dubbi e paure. Sembra veramente di essere scesi nel mondo sotterraneo del dio Ade. E allora ecco che ci viene in soccorso l’arte di Orfeo: la musica per esorcizzare la paura e sentirsi meno soli.

La musica come terapia contro la paura. L’Italia reagisce cantando all’emergenza del mostro coronavirus che blinda tutti in casa. L’appuntamento, a una ventina di giorni dai blocchi che hanno fatto del Paese una zona rossa unica, o quasi, non è più nei locali o nei parchi, ma sul balcone delle nostre case, ognuno munito di ciò che ha a disposizione: padelle, tamburi, e coperchi per esorcizzare il mostro. Tutti affacciati dunque per intonare una canzone tutti insieme, e il risultato è una melodia, diversa per ogni quartiere e città, che attraversa le regioni da Nord a Sud, ora seguendo le note dell’Inno di Mameli, ora canticchiando “Napul’è” di Pino Daniele, Azzurro di Adriano Celentano

E’ la voglia di andare avanti, ANDRA’ TUTTO BENE, è questo lo slogan. Il cielo è sempre più blu!

FORZA ITALIA, TI RIALZERAI PIU’ FORTE DI PRIMA

[1] Pubio Ovidio Nasone – Metamorfosi, Libro X – Ed. Einaudi Torino 1979

Autrice: Manuela Mariani

L’Arte della Cosmetica

(La Venere nascente di Alexandre Cabanel 1863)

Stimarsi è importante, significa piacersi ed essere soddisfatti di se stessi, vuol dire volersi bene, godere appieno della propria esistenza. Vivere in ambienti sani, circondarsi di bella gente e soprattutto avere cure della propria persona. Infatti, a chiunque sarà capitato di fare esperienza di quelle giornate no in cui tutto ci appare spento e ci lasciamo andare al malumore vedendo tutto negativo. Quando succede, magari, si tende alla trascuratezza, non si bada all’abbigliamento scegliendo per noi colori scuri che sottolineano la nostra indisposizione. Questo atteggiamento non ci aiuta affatto anzi, ci fa sentire ancora di più inadeguati mentre, basta un po’ di attenzione verso noi stessi per alleggerirci dall’umore nero, per esempio un bel taglio di capelli e un filo di rossetto può farci sembrare già tutto più luminoso.

Fin dalla notte dei tempi l’uomo si è adoperato a contornarsi di orpelli per adornare il suo aspetto e dipingersi parti del corpo per impreziosire la sua immagine lanciando mode e usanze che ancora adesso mettiamo in pratica, inventando così la cosmetica.

Da Kosmos a cosmesi
L’antica comune radice è la parola greca “kòsmos”, che ha come suo primo significato quello di “ordine” cioè, ordine per eccellenza, quello delle cose create da Dio, rappresentato appunto dall’universo o, in lingua greca, dal cosmo. L’ordine poteva poi rappresentare altri moltissimi riferimenti, per esempio i Greci chiamarono “kòsmoi”, in italiano “cosmi”, certi virtuosi magistrati, che avevano la funzione precisa di mettere ordine nella pubblica amministrazione. Né poteva essere dimenticato l’ordine domestico, e l’ordine della stessa persona fisica. Nell’antica Grecia si chiamava “cosmeta” lo schiavo addetto alla cura del guardaroba, e si sa che un guardarobiere se non è ordinato è fallito in partenza. La cosmeta donna era poi, quella che oggi si direbbe “cameriera di camera”, cioè l’addetta alle cure igieniche della signora, dal bagno agli unguenti, ai massaggi e simili: tutte cose che nell’antica Grecia occupavano giornate. Restando all’ordine strettamente personale, a quello cioè del proprio corpo, vediamo che dal primitivo “kòsmos” nacque il verbo “kosmèo”, “ordinare mettere ordine”, e poi estensivamente “adornare, abbellire” e di qui ecco la parola “kòsmesis”, in italiano “cosmèsi”, che è propriamente “l’azione di ordinare, ornare, abbellire”, in una parola sola, “abbellimento”, “ornamento”, fino ad arrivare alla  “kosmetikè tèchne”, cioè “l’arte cosmetica”, l’arte di abbellire, poi sostantivata in “cosmètica”. Che cosa è dunque propriamente questa cosmetica? L’arte di mettere ordine al disordine, alle imperfezioni del corpo umano nel campo dell’estetica e dell’igiene. E che cosa sono i cosmetici? Sono quei preparati che hanno lo scopo di riordinare, di correggere, di abbellire… insomma di fare belle e la cura estetica di sé era per le antiche sacerdotesse l’arte magica di consacrare il corpo per portare la mente lontano dalle preoccupazioni quotidiane verso un mondo di bellezza e creatività.

Come già detto, l’arte per la cura del proprio corpo, è antica quanto l’essere umano e una prova è la Venere di Laussel, un bassorilievo situato sopra l’entrata di un tempio-grotta sacro ritrovato a Dordogna, nel sud della Francia.

Guardando questa statuetta, si può pensare come già da allora, le donne siano state costantemente consapevoli della loro bellezza esteriore ed interiore, e come da sempre abbiano ritenuto necessario prendersi cura di se stesse senza oltraggiare la propria natura, semplicemente imparando a valorizzarsi e a credere in se stesse.

La Venere di Laussel, risalente a più di 20,000 anni fa, è una delle prime raffigurazioni femminili, forse adorata come dea della fertilità, porta una sottilissima cintura incisa intorno alla vita, e ancora oggi di una donna in gravidanza non diciamo incinta, dal latino incingere?

Inoltre la donna raffigurata è modellata con forme tonde, seni esuberanti e grosse natiche, non è certo una “normale rappresentazione della perfezione”, come oggi è rappresentata la bellezza femminile, ma è meravigliosa nella sua unicità: Unica come ogni Donna.

La prima rappresentante di questa arte è stata la divina Afrodite.

Dea greca dell’Amore, della bellezza e dell’arte, Afrodite corrisponde alla Venere dei Romani, ed è considerata da tutti, divini e mortali, la più bella tra le Dee, la più irresistibile ed attraente, vero simbolo dell’Amore, di cui non solo si fa portatrice, ma che incarna e rappresenta.

Per Omero, Afrodite è figlia di Zeus e di Dione, mentre Esiodo ci racconta un mito più antico, secondo cui Afrodite nasce dal membro di Urano, lanciato nel mare da suo figlio Crono dopo averlo evirato. Da quel membro si forma una bianca spuma (Aphor = schiuma) da cui ha origine la fanciulla divina. Così Euripide la descrive:

“Era immaginata bella e fiorente, tutta riso il sembiante, tutta oro l’abbigliamento; spirava dalla sua persona soave odore d’ambrosia, e allorchè ella si toglieva e dispiegava il cinto della sua bellezza, ogni cosa piegavasi all’incanto che emanava dal suo corpo.”

Gironzolando poi in campo astrologico, quando c’è il passaggio di Venere c’è crescita di nuove idee, nuove forme, nuovi stili. La relazione, la sensualità, l’interesse per la bellezza e per il comfort, per l’eleganza, la cura per il corpo e per le emozioni, sarebbero questi i benefici e, al tempo stesso i problemi, di questo tipo di dominanza.

Publio Ovidio Nasone (43 a.C.), scrisse un libriccino dedicato alle donne su come migliorare il loro aspetto dal titolo “L’arte del trucco”. In esso si legge:

Ragazze, imparate l’arte di migliorare l’aspetto, il modo di proteggere la bellezza del viso. La coltivazione costrinse il suolo sterile a porgere i doni di Cerere e fece sparire i roveti spinosi, la coltivazione migliora il succo dei pomi agri, l’albero acquista con l’innesto ricchezze adottive. Ci piacciono le cose ben curate: gli altissimi soffitti si ricoprono d’oro, la terra nera è nascosta da un pavimento di marmo. Volete che vesti d’oro coprano i vostri corpi, volete pettinature sempre diverse ai capelli profumati e la mano vistosa di gioielli. Mettete al collo pietre venute dall’Oriente e altre due ben pesanti da portare alle orecchie.
Per chiunque di loro il piacere a se stessa è una soddisfazione, le vergini hanno a cuore la propria bellezza. L’uccello sacro a Giunone spiega in ruota le penne ammirate dall’uomo e insuperbisce tutto della muta bellezza.

Come afferma il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij : “La bellezza salverà il mondo”.

Autrice: Manuela Mariani

Il narciso il fiore dell’egoismo

E Tiresia, divenuto famosissimo per le città dell’Aonia, dava ineccepibili responsi alla gente che lo consultava.
La prima a saggiare la veridicità delle sue parole fu l’azzurrina Liriope, che un giorno il Cefiso aveva intrappolato nelle curve della propria corrente, imprigionandola tra le onde e violentato. La bellissima ninfa, rimasta incinta, aveva partorito un bambino che già appena nato meritava di essere amato, e lo aveva chiamato Narciso. Interrogato se Narciso sarebbe giunto a vedere una lunga, tarda vecchiaia, l’indovino aveva risposto: “Se non conoscerà se stesso”.[1]

E fu così che si avverarono le parole dell’indovino Tiresia e colui che mai avrebbe dovuto conoscere se stesso, fu dalla sua immagine distrutto.
Sto parlando di Narciso dagli occhi del cielo, un ragazzo bello ma senza cuore, superbo e ostinato che nessun giovane e nessuna fanciulla mai lo toccò.
Se ne innamorò perdutamente la ninfa Eco, muta a qualsiasi lingua se non a quella pronunciata da altri, punita dalla potente Giunone per essere stata complice di Giove e avere coperto i suoi tradimenti.
Tante volte Giunone avrebbe potuto sorprendere il suo divino marito a far l’amore sui monti con le ninfe se quella Eco, astutamente, non l’avesse trattenuta con lunghi discorsi per dar tempo alle ninfe di fuggire.
Quando la figlia di Saturno se ne accorse, le disse: “Di questa lingua che mi ha ingannato potrai disporne poco: farai della voce un uso ridottissimo”.  E alle minacce fece seguire i fatti: solo quando uno finisce di parlare, Eco duplica i suoni ripetendo le parole che ha udito.[2]
E non essendo ancora soddisfatta, Giunone aggiunse sventura alla sventura perché Eco, non fu mai ricambiata del suo amore folle per Narciso.
Sulla sua insensibilità e vanità si racconta che un giorno Narciso regalò una spada ad Aminio, un suo acceso spasimante, perché si suicidasse e Aminio, tanto era grande il suo amore per lui, si trafisse il cuore sulla soglia della sua casa.
La storia di Eco colpì e fece rattristire la dea Nemesi, la dea dei delitti impuniti e irrisolti, la quale decise di punire Narciso, e così un giorno anche per lui arrivò il momento di provare la passione. Seduto ai bordi di una fonte vide la sua immagine riflessa nell’acqua cristallina e, attonito fissò se stesso e senza riuscire a staccare lo sguardo rimase immobile come una statua scolpita in marmo di Paro.
Racconta Ovidio: “Contempla gli occhi che sembrano stelle, contempla le chiome degne di Bacco e di Apollo, e le guance levigate, le labbra scarlatte, il collo d’avorio, il candore del volto soffuso di rossore… Oh quanti inutili baci diede alla fonte ingannatrice!…”[3]Languì a lungo d’amore non toccando più cibo né bevanda. A poco a poco la passione lo consumò, e un giorno vicino alla fonte … reclinò sull’erba la testa sfinita, e la morte chiuse i suoi occhi che furono folli d’amore per sé. … Piansero le Driadi, ed Eco rispose alle grida dolenti. Già avevano preparato il rogo, le fiaccole, la bara, ma il suo corpo non c’era più: trovarono dove prima giaceva, un fiore dal cuore di croco recinto di candide foglie.[4]
Quando le Naiadi e le Driadi, ninfe dei fiumi e delle foreste, andarono a prendere il suo corpo per collocarlo sulla pira funebre si narra che al suo posto fu trovato uno splendido fiore bianco che da lui prese il nome di Narciso.

Il racconto di Ovidio lega il fiore del narciso alla bellezza e, soprattutto, all’amore di sé. L’amore che non lascia sentimenti per gli altri se non per se stessi e che nutre e ammira solo il proprio io, ma che è destinato a morire. Da qui il termine, appunto, di “narcisista”. Narciso rappresenta dunque colui che sa amare solo se stesso disinteressandosi del resto del mondo, incapace di vedere e di aprirsi all’altro.
Guardare fuori se stesso mette il narcisista in discussione, obbligandolo a vedere le proprie fragilità e di dipendere dall’altro.
I narcisisti possiedono, perciò, un’idea molto alta di se stessi: si sentono perfetti e amano cibarsi di fantasie di fama, successo, denaro e riconoscimenti. Con estrema presunzione sentono di essere esperti in tutto e di saper fare bene tutto.
Vivono le critiche degli altri come frutto di invidie e gelosie, amano circondarsi, naturalmente, da chi non fa altro che confermare la loro valenza e, se questo non succede, si sentono offesi e frustrati.

Nel linguaggio dei fiori e delle piante il narciso ha significati sia positivi sia negativi: nel significato positivo rappresenta l’autostima, e rappresenta le persone forti e sicure di se. Di contro, nel significato negativo, rappresenta la vanità e l’incapacità d’amare, e tale concetto lo si deve proprio all’antica leggenda di Narciso.

[1] Metamorfosi, Publio Ovidio Nasone – Ed. Einaudi Torino 1979
[2] Metamorfosi, Publio Ovidio Nasone – Ed. Einaudi Torino 1979
[3] Metamorfosi, Publio Ovidio Nasone – Ed. Einaudi Torino 1979
[4] Metamorfosi, Publio Ovidio Nasone – Ed. Einaudi Torino 1979

Autrice: Manuela Mariani